Scheda malattia
La trombosi venosa nel bambino
Gli eventi tromboembolici venosi costituiscono una problematica piuttosto rara in età pediatrica, con un’incidenza di circa 1 caso/100.000/anno nei pazienti di età < 14 anni.
Se si considera la sola popolazione di bambini ospedalizzati, invece, l’incidenza è di circa 1/200.
Il dato di incidenza di eventi trombotici secondari ad ospedalizzazione è più che decuplicato negli ultimi vent’anni, come conseguenza dell’avanzamento delle tecniche rianimatorie e chirurgiche e del globale aumento dell’aspettativa di vita di bambini affetti da patologie croniche.
Quali sono i fattori di rischio in età pediatrica?
Un evento trombotico è sempre la risultante dell’associazione di più fattori di rischio.
La presenza di un catetere venoso centrale (CVC), rappresenta il singolo fattore più rilevante (il 60 -75% dei casi di trombosi < 18 anni sono catetere-associati):, l’inserimento di un CVC determina anomalie in tutte e tre le categorie sopra enunciate: danno endoteliale locale, dovuto al traumatismo meccanico e alle sostanze potenzialmente flebotossiche che vengono infuse (es. nutrizione parenterale totale); alterazione del flusso sanguigno (rallentamento per parziale ostruzione vascolare, turbolenza per infusione locale di farmaci); attivazione della cascata coagulativa mediante la via “del contatto” da parte della superficie del catetere. Infine, considerando il contesto in cui si rende necessario il posizionamento di un CVC (instabilità emodinamica in bambino con patologia critica, infusione continua di antibiotici per patologia infettiva sistemica, infusione di chemioterapia per patologia oncologica), è evidente che il bambino che richieda un CVC presenterà di base un aumentato rischio trombotico, moltiplicativo rispetto al CVC stesso.
Una anamnesi positiva per eventi trombotici venosi o arteriosi in età giovanile (< 50 anni) o di poliabortività in familiari di primo grado costituisce un fattore di rischio significativo e indipendente rispetto alla riscontro di uno dei fattori trombofilici ereditari monogenici esplorati dal cosiddetto “screening trombofilico” (mutazione del fattore V tipo Leiden, mutazione 20210 del fattore II, deficit di proteina C, di proteina S o di antitrombina III).
Inoltre, esistono numerose patologie genetiche/ereditarie che si associano di per sé a un incrementato rischio trombotico (ad esempio, l’anemia falciforme, la sindrome nefrosica, l’omocistinuria) e alcune anomalie congenite che costituiscono l’equivalente di una trombofilia anatomica (ad esempio, l’agenesia della vena cava inferiore; la sindrome di May-Thurner con compressione di una o entrambe le vene iliache; la sindrome dello stretto toracico superiore con compressione della vena succlavia).
Quando deve essere sospettato un evento trombotico in età pediatrica?
La presentazione clinica degli eventi trombotici a carico di un arto è caratterizzata da dolore/senso di pesantezza carico dell’intero arto, spesso esacerbato dal movimento; tumefazione estesa in senso disto-prossimale; discromia violacea/cerulea o eritematosa; parestesie; accentuazione del reticolo venoso sottocutaneo in caso di trombosi CVC-correlata, disfunzione del catetere o infezione CVC-correlata. Gli eventi a interessamento cerebrale si manifestano in maniera variabile in base all’età del soggetto e degli specifici territori parenchimali coinvolti: il neonato tende a manifestare episodi comiziali; il bambino tende a presentare cefalea, spesso ingravescente o comunque resistente ai comuni antidolorifici, associata o meno a vomito; in caso la sintomatologia cefalalgica venga sottovalutata o misconosciuta, possono comparire deficit neurologici specifici, quali diplopia, strabismo, alterazione del visus.
Quali accertamenti strumentali devono essere effettuati per confermare il sospetto clinico?
Il sospetto diagnostico di un evento periferico richiede conferma strumentale mediante ecografia completa di studio color-doppler, che mostrerà la non comprimibilità del vaso e l’assenza di flusso venoso. Ulteriori accertamenti, quali angio-TC, angio-RM o ecocardiorafia sono mirati allo studio dei tronchi vascolari sovra-cardiaci.
Il sospetto diagnostico di un evento cerebrale deve essere invece confermato mediante esecuzione di risonanza magnetica completa di sequenze venografiche o in alternativa, mediante TC cranio con mezzo di contrasto con acquisizione di immagini in fase venosa.
Quali ulteriori accertamenti eseguire?
Una volta posta la diagnosi di evento trombotico, è tuttavia necessario indagare le cause che l’hanno scatenato: spesso queste sono evidenti a seguito di anamnesi ed esame obiettivo (es. presenza di CVC, trattamento per patologia neoplastica, ecc…), ma è possibile che l’evento trombotico sia la prima manifestazione di una patologia sottostante (si parla in questo caso di trombosi criptogenica).
E’ sempre necessario eseguire uno screening tombofilico?
Lo screening tombofilico prevede l’esecuzione di: -ricerca di mutazione V Leiden e 202010 del fattore II; – dosaggio di proteina C (saggio cromogenico), dosaggio di proteina S libera, dosaggio dell’attività dell’antritrombina III (saggio funzionale); dosaggio dell’omocisteina.
Generalmente si cerca di limitare la richiesta dello screening trombofilico alle situazioni in cui sia presente una familiarità per eventi trombotici o in caso di trombosi in sedi atipiche (eventi cerebrali, viscerali) oppure non chiaramente provocate oppure sproporzionate rispetto agli apparenti fattori di rischio. L’utilità di eseguire uno screening trombofilico risiede nell’opportunità di modulare gli eventuali interventi di profilassi sulla scorta della “severità” della trombofilia riscontrata (riscontrare un V Leiden in eterozigosi ha, ad esempio, un peso molto inferiore rispetto a un deficit di ATIII o di un V Leiden in omozigosi), sia per il soggetto indice sia, soprattutto, per i suoi familiari di primo grado (in particolare i soggetti di sesso femminile in età fertile, che possono incorrere in situazioni ad elevato rischio trombotico, quali l’utilizzo di estroprogestinici o la gravidanza).
Principi di terapia anticoagulante
L’orientamento terapeutico in ogni specifico caso dovrebbe basarsi sulla valutazione del rischio dell’estensione del trombo, da una parte, e del sanguinamento legato all’intervento terapeutico, dall’altra e tale strategia terapeutica, deve fondarsi necessariamente sull’esperienza del pediatra ematologo, e non può prescindere da un approccio multidisciplinare: le informazioni più accurate circa la prognosi a lungo termine e la definizione degli obiettivi terapeutici dovrebbero essere forniti dallo specialista d’organo (per esempio, il neurologo in caso di trombosi cerebrale) e tenere in alta considerazione le preferenze del paziente e della famiglia.
In linea di principio, si possono adottare tre diversi approcci, eventualmente passando dall’uno all’altro in caso di modifica dinamica del rischio: a) vigile attesa (“watch and wait”) qualora il rischio emorragico sia molto elevato o comunque superiore rispetto ad un basso rischio di estensione/ricorrenza del trombo (in caso di evento scatenante a natura transitoria), e qualora sia possibile mantenere uno stretto monitoraggio con controllo clinico e radiologico del paziente a distanza di 3-5 giorni per confermare la mancata estensione del trombo; b) terapia anticoagulante in tutti i casi in cui sia necessario prevenire l’estensione del processo trombotico, facilitando l’attività del sistema fibrinolitico endogeno, e il rischio emorragico sia contenuto; c) trombolisi sistemica solo nei casi di imminente perdita di arto, organo o vita, visto l’elevato rischio di sanguinamento maggiore che si accompagna al suo impiego.
I farmaci anticoagulanti attualmente disponibili includono:
-Eparina standard non frazionata (UFH): i vantaggi legati all’utilizzo dell’UFH sono: la larga esperienza nel suo utilizzo; l’emivita breve (circa 2 h); il metabolismo indipendente dalla funzionalità renale o epatica; – la disponibilità di un agente che ne neutralizza rapidamente l’effetto (protamina solfato). Gli svantaggi sono: la necessità di un buon accesso vascolare per garantirne l’infusione venosa continua; la farmacocinetica talvolta imprevedibile con necessità di monitoraggio intensivo e seriato; il rischio (minimale in età pediatrica) di dar luogo alla reazione immuno-ematologica nota come “Heparin Induced Thrombocytopenia” (HIT).
Il dosaggio di eparina comunemente utilizzato in età pediatrica è di 20 U/kg/h (sono necessari dosaggi più elevati in lattanti e neonati). La sua attività viene monitorata mediante dosaggio di attività anti-fattore Xa (target terapeutico: 0.35-0.75) e/o mediante aPTT ratio (target terapeutico: 2-3 volte rispetto al basale). Nel complesso, l’UFH è un farmaco molto utile nei contesti ad elevato rischio emorragico (es. pazienti critici, utilizzo di ECMO, neonati) o in prossimità di interventi chirurgici/procedure invasive, ma il suo utilizzo è in genere limitato a un periodo ponte in attesa di una soluzione più stabile e facilmente gestibile.
-Eparine a basso peso molecolare (LMWH, es. enoxaparina, dalteparina): si tratta di frazioni a basso peso molecolare fisso dell’UFH che agiscono potenziando l’attività di ATIII e vengono generalmente somministrate per via sottocutanea ogni 12h. I vantaggi delle LMWH sono: una farmacocinetica prevedibile, con una relazione più standardizzata tra dosaggio, target terapeutico ed efficacia clinica; una minore dipendenza dai livelli di ATIII per essere efficace; l’assenza di interazioni farmacologiche degne di nota; un rischio di HIT ancora inferiore rispetto a UFH.
Gli svantaggi sono: la necessità di effettuare due volte al giorno punture sottocutanee, il che in genere riscontra la resistenza di paziente e familiari; un metabolismo principalmente per via renale; l’efficacia solo parziale della protamina solfato (poichè il farmaco viene rilasciato gradualmente dal tessuto sottocutaneo, la protamina neutralizzerà solo la quota circolante in un dato momento).
L’attività delle LMWH viene monitorata mediante dosaggio di attività anti-Xa, in genere a partire da 4-6 h dopo la seconda o terza somministrazione, cercando di mantenere un range tra 0.5 e 1.0. Generalmente, nel caso dell’enoxaparina, si parte con 100 U/kg/dose ogni 12h nel bambino aggiustando poi la dose sulla scorta dei valori di anti-Xa (sono necessari dosaggi più elevati in lattanti e neonati). Nel complesso, le LMWH sono farmaci piuttosto maneggevoli, con un rischio emorragico contenuto; rappresentano la prima scelta in caso di terapie di breve durata (6-12 settimane), o in caso di trombosi periferiche provocate da un fattore transitorio e risolto; peraltro, l’assenza di interazioni farmacologiche le rende la prima scelta in caso di eventi trombotici secondari a patologia neoplastica.
-Warfarin: agisce inibendo l’enzima che attiva la vitamina K a livello epatico (complesso VKOR), determinando quindi una riduzione della sintesi dei fattori cosiddetti K-dipendenti (fattori II, VII, IX, X). I vantaggi del warfarin sono rappresentati da: somministrazione per os mediante compresse; metabolismo epatico, per cui è utilizzabile in caso di insufficienza renale cronica; lunga emivita; elevata potenza anticoagulante; presenza di molteplici opzioni terapeutiche in caso di necessità di bloccarne l’attività anticoagulante (vitamina K, plasma, concentrato protrombinico attivato).
Svantaggi: molteplici interazioni con la dieta (efficacia variabile in base al quantitativo di vitamina K assunta con la dieta) e con altri farmaci; metabolismo variabile in caso di eventi intercorrenti (es. per utilizzo concomitante di antibiotici); farmacocinetica in parte imprevedibile, con necessità di monitoraggio periodico dei valori di INR; rischio emorragico non indifferente (incluso sanguinamento intracranico spontaneo); effetto dannoso sullo sviluppo scheletrico (anomala maturazione di proteine facenti parte dell’architettura ossea) con necessità di monitoraggio di densitometria ossea periodicamente; assenza di formulazione liquida, il che ne rende complicato l’utilizzo nei lattanti; effetto teratogeno, soprattutto nel primo trimestre di gravidanza.
Il warfarin non può essere mai iniziato in prima battuta, ma richiede sempre la somministrazione concomitante di un altro anticoagulante (eparina) a ponte. In genere, si inizia con un dosaggio di 0.2 mg/kg, mirando a raggiungere l’INR prescelto (per la gran parte delle indicazioni, il range è compreso tra 2 e 3) entro 5-7 giorni, proseguendo poi con controlli dell’INR inizialmente settimanali, e poi ogni 2-3 settimane. Complessivamente, il warfarin è attualmente la prima scelta nei casi in cui sia necessaria un’anticoagulazione a lungo termine: in presenza di eventi trombotici non chiaramente provocati, in cui l’indicazione è di proseguire la terapia 6-12 mesi; in caso di eventi trombotici ricorrenti (soprattutto nel contesto di una trombofilia geneticamente determinata), in cui può essere indicata una terapia quod vitam; in caso di fattori di rischio persistenti, non modificabili (es. cardiopatia congenita o acquisita, vasculopatia).
Viceversa, è un farmaco per lo più controindicato in corso di chemioterapia, proprio per le molteplici interazioni farmacologiche, che rischiano di renderlo meno efficace e meno sicuro dal punto di vista del rischio trombotico.
A breve saranno licenziati anche in età pediatrica gli anticoagulanti orali diretti (dabigatran, rivaroxaban, apixaban), che presentano diversi vantaggi in termini di farmacocinetica (minor numero di interazioni farmacologiche, non necessità di controllo laboratoristico periodico) e profilo di sicurezza (minor incidenza di eventi emorragici maggiori), ma che, presentando alcuni profili di rischio specifici, non potranno sostituire i “vecchi farmaci” sopra descritti.
Quali sono le indicazioni alla tromboprofilassi in età pediatrica?
Tra le poche indicazioni assolute alla tromboprofilassi vi è l’anamnesi personale di evento trombotico (tromboprofilassi secondaria); in particolare, è stata dimostrata l’utilità della profilassi con eparina nella prevenzione di ricorrenza di trombosi catetere-correlata, nel soggetto che già abbia avuto in precedenza una trombosi da catetere.
L’unica indicazione certa alla profilassi primaria (ovvero, da eseguire in soggetto che non abbia una storia di pregressa trombosi) è invece rappresentata dalla cardiopatia congenita o acquisita.
Anche qualora lo screening evidenzi una trombofilia genetica maggiore ad elevato rischio trombotico secondo le attuali indicazioni delle più accreditate società scientifiche, non è sempre necessario eseguire profilassi primaria anticoagulante, ma solo in caso di condizioni di rischio quali immobilizzazione prolungata, ospedalizzazione, e/o intervento chirurgico, gravidanza (sia antepartum che postpartum) ; inoltre è importante fornire indicazioni relative a corretti stili di vita (alimentazione ricca in frutta e verdura, adeguata attività fisica aerobia, astensione dal fumo, idratazione abbondante) e si raccomanda di evitare farmaci estroprogestinici (rischio di sviluppare evento trombotico stimato: 35-70%).
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